Il giorno in cui decidi di commettere il tuo primo omicidio non è diverso dagli altri: nessun segno premonitore.

Tutti conosciamo la rabbia, la delusione, il rancore.

Tutti abbiamo subito torti, più o meno grandi, ma non per questo abbiamo deciso di uccidere.

Non so perché questa volta è stato diverso.

Ieri ho incontrato la mia vittima.

Ci conosciamo da tempo, per un breve periodo abbiamo condiviso un percorso imprenditoriale che ho chiuso non appena mi sono reso conto del personaggio.

Da allora, tutte le volte che lo incontro, ha qualcosa da recriminare.

E’ un individuo losco.

Non parla mai chiaro.

Gli piace lasciare intendere fra le righe, lui che proviene da un ambiente dove le pallottole costano un euro l’una.

Ci siamo incrociati in un bar.

– Quando hai tempo passa da me che facciamo due conti. –

– Due conti di cosa? Abbiamo chiuso la partita. Tu hai preso il tuo e io il mio. Non devo fare conti. –

– Non è così che funziona – risponde con sorrisetto ironico. – Tu ti sei preso quello che hai voluto, ma sono rimaste delle partite aperte. –

– Non ho partite aperte con nessuno, tanto meno con te. Ho chiarito la questione prima di chiudere la vendita. Ho accettato di prendere poco o nulla proprio perché non volevo più avere a che fare con te. Prima di firmare ti ho chiesto se andava bene. Hai accettato e ora non voglio più sentirne parlare. Inizio a stancarmi di questi discorsi. –

– Vedi, Claudio, non è solo una questione di soldi. C’è di mezzo la fiducia e la morale. –

– Ascolta, non mi parlare di morale tu. La mia coscienza e tutto il resto è a posto. Dormo bene la notte. –

– Se è così allora va bene. Ti saluto. –

Così dicendo se ne era andato.

Se devo essere onesto, questa volta era andata meglio di altre.

La cosa sembrava chiarita, e mi aveva dato l’idea di volerla chiudere anche lui, una volta per tutte.

Avrei dovuto esserne felice, invece mi sentivo insoddisfatto.

Non mi andava di chiuderla così. Quel piccolo uomo arrogante non doveva cavarsela a buon prezzo.

Dunque? Alla fine del ragionamento deve esserci una conclusione.

Un problema senza una soluzione è solo un rompicapo.

A me piacciono le soluzioni.

I problemi sono la sfida; le soluzioni la vittoria.

Lo ucciderò, ho pensato. Mi è venuto naturale. Semplice come uno sbadiglio, privo di rimorso o di timore per le conseguenze.

Quando?

Domani, lo farò domani. Aspettare non serve.

Questa mattina mi sono svegliato, presto come sempre. Mia moglie e mio figlio dormivano. Ho fatto colazione e mi sono preparato.

Una giornata come tutte le altre.

Stavo bene.

Non mi ero dimenticato del mio proposito. Forse proprio per questo stavo bene.

Lo avrei ucciso.

E’ il tredici di agosto.

Si respira l’aria pesante delle vacanze imposte.

Tutto è chiuso.

Vivo in una zona di villeggiatura.

Tolti gli esercizi pubblici, non c’è un’azienda aperta.

Le zone industriali sono deserte.

Faccio un passaggio con l’auto davanti al deposito di proprietà dello strozzino.

Come immaginavo, è al lavoro.

Il cancello è chiuso, ma la sua auto è parcheggiata dentro.

Non avrebbe potuto essere altrimenti.

E’ un uomo che non conosce famiglia, divertimento e ristoro.

Divorziato da anni con figli e nipoti.

Non parla e non vede nessuno.

Bene così.

La sua azienda è il posto migliore per ucciderlo.

Farlo a casa sua sarebbe stato più complicato.

E io ho deciso che lo avrei ucciso oggi.

E’ necessario pianificare le mosse con attenzione. Scrivere thriller qualcosa mi ha insegnato. Il primo problema da risolvere è l’auto. Non posso lasciarla nelle vicinanze. Chiunque potrebbe notarla. Potrei parcheggiarla da qualche parte e chiamare un taxi, ma significa aggiungere un testimone.

Mi reco sul lungomare, a circa quattro chilometri dalla mia prossima meta, e parcheggio l’auto.

Prendo lo zaino che avevo caricato la mattina e tiro fuori pantaloncini, maglietta e scarpe da corsa.

Nessuno mi sta guardando, e comunque in una calda giornata di agosto non è poi così strano vedere qualcuno che si spoglia in auto.

Metto i vestiti e le scarpe nello zaino e, uscito dall’auto, me lo metto in spalla.

Infilo berretto e occhiali da sole e, senza guardarmi intorno, parto a passo veloce.

Corro almeno due volte la settimana, quindi nulla di strano che lo stia facendo anche in quel caldo giorno d’agosto.

Venti minuti e sono nei pressi del magazzino.

Non mi fermo, ma proseguo senza voltarmi, sbirciando con la coda dell’occhio.

Tutto tranquillo.

Non c’è nessuno.

La sua auto è parcheggiata al solito posto.

Lui non si vede in giro.

E’ nel box ufficio.

Proseguo fino alla fine della strada. Mi fermo e faccio qualche esercizio di stretching.

Sono le undici di mattina, al sole ci saranno trentotto gradi.

Non c’è anima viva in giro.

Lancio un’occhiata veloce alle finestre dei palazzi: nessuno affacciato.

Riprendo la corsa e mi fermo davanti al cancello.

E’ solo accostato.

Il lucchetto appoggiato sul montante. Lo spingo di lato ed entro, richiudendo dopo il mio passaggio.

Mi dirigo verso l’ufficio.

Lo intravedo dietro la scrivania davanti al computer.

Non mi ha visto arrivare.

Apro la porta.

Un tremito lo scuote.

– Che ci fai qui? –

Non so se ne abbia cognizione, ma sta tremando.

– Sono venuto a chiarire, una volta per tutte, la storia dei sospesi. –

– Mi hai detto che non ti senti in debito – replica lui riprendendo fiato.

Lo spavento gli sta passando. Del resto sa che sono un uomo pacato, in fin dei conti una persona perbene. Non crede di essere in pericolo.

Infatti – gli dico – io sono a credito. Sono venuto a incassare.

Cosa intendi? – replica sospettoso – a credito? Con tutti i soldi che ho perso io, te cosa vorresti incassare?

Vedi – rispondo facendo un passo verso di lui – mi sono stancato delle tue frasi a doppio senso, delle minacce velate, del tuo modo da mafioso di terza categoria. Credo che non la finirai mai di rompermi le scatole. Avrai sempre qualcosa da recriminare, continuerai a parlare e sparlare. Ho deciso di risolvere la situazione una volta per tutte.

Deve avere percepito qualcosa di diverso. Indietreggia, ma il box misura tre metri per due. Le sue spalle premono contro la parete.

Hai paura? – gli chiedo.

Non risponde.

Il suo respiro accelera, gli occhi si muovono in tutte le direzioni. Sta cercando una via di fuga che non c’è.

Faccio un altro passo in avanti. Gli sono addosso. Sembra ancora più piccolo. Vedo le gocce di sudore che gli colano dalle tempie.

Non proferisco parola.

Sorrido e lo colpisco con un violento montante sinistro al fianco.

Stramazza al suolo senza rumore.

È svenuto.

Sono deluso. Mi sarebbe piaciuto lottare. Non ci sarebbe stata storia. Sono un uomo grande e grosso con decenni di palestra alle spalle e un passato da pugile, ma mi sarei aspettato qualcosa di più.

Non posso fare stupidaggini, però. Devo mettere la testa prima del cuore. Non ho intenzione di passare il resto della mia vita in cella. L’errore c’è sempre: la telecamera che non ti aspetti, il testimone che non avevi notato. Deve sembrare un incidente sul lavoro, come spesso ne capitano.

A trenta metri dall’ufficio c’è il capannone dove vengono stoccate lastre di marmo e granito.

Esco e con passo tranquillo lo raggiungo.

La porta è chiusa.

Torno indietro.

Se non trovo la chiave del lucchetto, ho un problema.

Il box è piccolo. Mi guardo intorno. Non vedo chiavi. Apro i cassetti ma non ne trovo.

La tranquillità inizia a scemare.

Controllo nelle tasche del bastardo.

Trovo solo le chiavi dell’auto.

Un lampo. Esco e chiudo la porta del box. Nella serratura è infilata la chiave. Penzola nel vuoto un mazzo enorme di chiavi. Lo prendo e torno al capannone.

La sesta chiave è quella che cerco.

Il lucchetto scatta.

Apro ed entro.

Lunghe file di lastre di marmo e granito sono appoggiate a cavalletti di ferro.

Ogni lastra pesa in media quattrocento chili.

Faccio un giro per sincerarmi che non ci siano telecamere.

Sono stato qui altre volte, ma mai fidarsi.

Torno all’ufficio.

Mi carico lo strozzino sulle spalle.

Prima di uscire trattengo il fiato.

So che questa è la parte rischiosa.

Se qualcuno mi vede, il piano va all’aria.

Esco. Il caldo è allucinante. E’ da poco passato mezzogiorno.

Cammino a passo svelto e mi infilo nel capannone. Mi avvicino al primo blocco di lastre e lo butto a terra. Boom direbbe mio figlio.

Batte forte la testa, ma non si muove.

Torno alla porta.

Esco facendo finta di controllare la serratura.

Mi guardo intorno.

Deserto.

Torno indietro.

Sposto il corpo sotto la prima caprata di lastre.

Ce ne sono dodici. Peso complessivo sei tonnellate. Più che sufficiente per schiacciare una zecca.

Trovo disdicevole il fatto di non potere demolire, pezzo dopo pezzo, quell’essere insignificante.

Avrei voluto farlo tante volte in passato.

Mi sono sempre trattenuto, spesso a stento, per evitare problemi e denunce.

La mia indole è l’attacco. Sono un pugile. Il contatto e il dolore mi piacciono. Potrei metterlo in piedi, agganciarlo alla gru a ponte e usarlo come un sacco da allenamento. Demolirlo con diretti, ganci e montanti, combinazioni di pugni e calci. Dio come sarebbe bello! Mi sembra di sentirne in bocca il sapore.

Ma poi? Come farlo passare per un incidente?

Guardo il corpo a terra.

Nessun segno di vita.

Che spreco.

Buttargli addosso le lastre senza potergli dire neppure una parola, senza vedere la sua paura.

Decido di concedermi venti minuti.

Né uno di più né uno di meno.

Più tempo passa, maggiori sono i rischi.

Se non si sveglierà gli butterò addosso il pacco di lastre.

Quando troveranno il corpo penseranno a uno dei soliti incidenti che capitano spesso nei laboratori di marmo.

Hai un pacco di lastre davanti e vuoi vedere la qualità di quelle dietro. E’ un’operazione che si fa decine di volte.

Per farla in sicurezza devi usare una gru e aprire le lastre una a una.

Non lo fa nessuno.

Più frequente farlo in due; uno da una parte e uno dall’altra. Apri la lastra. La tieni in piedi, senza scostarla troppo, e sbirci quella dietro.

Capita a volte, invece, che sei solo. Ti metti davanti alla lastra e la apri, tenendola in equilibrio. Una disattenzione, un difetto del materiale, la lastra perde l’equilibrio e ti viene addosso. Cadendo sposta il pacco completo. Cadono una dopo l’altra. Vieni schiacciato. Tanti operai sono morti così. Lui morirà così.

Al minuto quattordici e ventisette secondi noto un piccolo movimento.

Gli ci vogliono altri tre minuti per aprire gli occhi.

Non mi vede.

Lo sguardo è vacuo.

– Ehi, ehi. Buongiorno. Dormito bene? Mi vedi, sono qui. –

Sente la mia voce, ma non ha cognizione di dove si trova.

Mi chino su di lui.

Lo schiaffeggio.

Mi trattengo a stento. La voglia di colpirlo è così tanta che avverto una fitta di dolore.

Apre gli occhi.

Inizia a capire.

E ricordare.

– Allora, ricordi? Sono io. Sto per ucciderti. –

Si guarda intorno. Non prova neppure ad alzarsi. Ha lo sguardo di un bambino, ma di un bambino bastardo giunto al suo ultimo giorno di vita.

– Siamo a casa tua, nel tuo capannone. E’ qui che morirai. –

Ha una contrazione.

Prova a tirarsi su ma ricade.

Il montante al fianco deve avergli fratturato qualche costola.

– Mi piacerebbe stare con te a fare un po’ di conversazione, ma non ho tempo. Sono davvero felice tu ti sia svegliato. Ammazzarti senza guardarti negli occhi sarebbe stato uno spreco enorme. –

Con entrambe le mani stacco la prima lastra di granito.

La allargo di circa dieci centimetri e mi metto di lato.

Sposto gli occhi su di lui. Ha capito.

Asp… – prova a dire, ma la parola gli muore in gola.

Spingo la lastra. Per un attimo sembra restare in equilibrio. Piano piano si apre. Scende. Lenta e poi veloce.

Lo guardo. Alza una mano, poi non lo vedo più.

La lastra lo copre.

Gli cade addosso.

Sento un rumore soffocato. Non un grido, non una parola.

Apro la seconda lastra e la spingo. Si abbatte con un tonfo su quella che l’ha preceduta. Alla settima lastra il sangue appare. Dapprima un rivolo, poi una macchia che si allarga veloce. Mi sposto per non sporcarmi.

Osservo la montagna di granito.

Mi sdraio a terra.

Lo spazio che divide le lastre dal suolo è poco più di venti centimetri.

Intravedo i vestiti e i capelli, niente altro.

Deve essersi rannicchiato prima dell’impatto.

Mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia. Vedere gli occhi spenti, il ghigno di terrore. Nulla da fare.

Inutile indugiare.

Devo andare.

Esco dal capannone.

Lascio la porta spalancata.

Faccio un passaggio veloce in ufficio per sincerarmi di non essermi dimenticato nulla. Tutto a posto.

Un rapido sguardo attorno.

Niente di niente.

Apro il cancello, esco e lo richiudo dietro di me.

La zona industriale è deserta.

Mi guardo i vestiti e le scarpe. Non ho macchie di sangue, solo un po’ di polvere sui pantaloncini che scuoto con le mani.

Prendo a correre a passo di jogging: né veloce né lento.

Sono tranquillo.

Il respiro è regolare.

Arrivo in fondo alla strada e svolto in direzione del lungomare.

Avvicinandomi al litorale prendo a incontrare gente a piedi e in bicicletta.

Una ragazza mi guarda. La saluto con la mano. E’ carina.

Aumento il ritmo della corsa. Sento il vento fra i capelli e le gambe che si aprono in falcate sempre più lunghe.

Rifletto: sono uno scrittore di thriller diventato assassino o un assassino che scrive thriller?