A condizioni normali, Vittorio non avrebbe mai accettato quel lavoro. Faceva il muratore sin da ragazzino e aveva imparato a scremare le offerte. Meglio puntare su interventi rapidi e ben remunerati.

La demolizione di una vecchia struttura in sasso, lo scavo e la realizzazione di un muro di contenimento in cemento armato, tradotto in italiano, significavano giornate di lavoro sotto il sole cocente e poco guadagno.

Non era, però, nella condizione di scegliere. Era stato fermo due mesi per la chiusura forzata a causa del Covid, e non poteva permettersi di andare troppo per il sottile. Lo scoperto in banca continuava la sua marcia verso il basso, e il bonus di 600 euro era stato ingoiato da quel buco nero.

La casa dove doveva fare i lavori si trovava in prima collina.

Una zona residenziale composta per lo più da bifamiliari e qualche villetta singola.

Il suo unico dipendente era stato messo in cassa integrazione durante il periodo Covid.

Sebbene sapesse che si sarebbe massacrato, aveva deciso di non richiamarlo e fare da solo. Le voci di un prossimo lockdown in autunno erano sempre più insistenti, e lui non poteva permetterselo. Nei limiti del possibile, doveva cercare di mettere da parte un po’ di soldi, altrimenti rischiava di trovarsi in ginocchio.

Il primo giorno conobbe il suo nuovo aiutante.

Si chiamava Luigi e abitava nella bifamiliare accanto alla villetta dove stava facendo i lavori.

Aveva quattro anni non ancora compiuti, ed era biondo come un tedesco. Lo vide arrivare in sella alla bicicletta, in costume.

Ciao, te chi sei? – chiese guardandolo con aria sospettosa.

Mi chiamo Vittorio, e tu chi sei? –

Io sono Luigi. Abito laggiù – disse indicando la casa accanto. – Cosa fai? –

Devo fare dei lavori qui – rispose Vittorio – devo buttare giù quel muro e poi fare un buco grande per farne uno nuovo. –

Grande? – chiese urlando Luigi. – Con lo scavatore?

Sì, poi dovrò venire con l’escavatore. –

Luigi si aprì in un sorriso:

Uno scavatore grandeeeeee! – disse mimando con le mani. – Io aiuto te? –

E’ pericoloso – rispose Vittorio – ma se vuoi puoi stare a vedere. Senti cosa ti dicono mamma e babbo. –

Da quel giorno, Luigi divenne il suo aiutante.

Aveva l’incarico di controllare che la demolizione procedesse bene e che il solco fosse in linea. Il bambino trascorreva le giornate facendo avanti e indietro lungo la strada in bicicletta.

La madre si era presentata il primo giorno chiedendo se il figlio non lo disturbava.

Era bionda, semplice e modesta. Doveva essere più giovane di lui di qualche anno. Vittorio aveva trentacinque anni. Gli disse che se in qualche modo gli creava problemi, bastava venisse a suonare al campanello. Si scusava, ma tenerlo in casa non era facile.

Il padre, gli aveva detto Luigi, faceva il camionista e usciva di casa presto la mattina, e tornava tardi la sera. Era evidente che lui fosse più affettivamente vicino alla madre. Dicono sia sempre così per i maschi.

Dopo una settimana, Vittorio si era abituato alla sua presenza costante.

Quel martedì, non vedendolo arrivare, si era preoccupato. Durante la pausa pranzo era andato a suonare al campanello di casa sua. L’attesa non fu breve. Venne ad aprire la madre. Indossava occhiali scuri. Vittorio rimase sulla soglia del cancelletto di entrata. Quel maledetto Covid obbligava a stare sempre più lontani:

Luigi sta male? – chiese – Non l’ho visto arrivare e mi sono preoccupato. –

Questa mattina suo babbo l’ha portato con lui – disse la donna.

Bene, sarà felice di passare una giornata con il padre. Chiedo scusa per il disturbo.

La mattina seguente, Luigi arrivò a piedi. Vittorio vide la sua macchia scura risalire la strada. Aveva il sole alle spalle e non riusciva a distinguerne i contorni.

Gli sembrava zoppicasse.

Quando gli fu vicino, Vittorio sussultò:

– E che ti è successo? –

Il bambino aveva il lato destro del viso gonfio e violaceo. Indossava pantaloncini e maglietta, non il solito costume. Vittorio gli si inginocchiò davanti e sollevò la maglietta. Il lato destro del piccolo corpo era livido.

Ma cosa ti è successo? – ripeté.

Sono caduto – rispose il bambino mordendosi le labbra.

Poi, non riuscendo a trattenersi, si sciolse in lacrime e l’abbracciò.

Sei caduto in bicicletta? – chiese Vittorio preoccupato. – Ma sei andato in ospedale? Hai preso una bella botta. –

Luigiiii, Luigiiii! –

Sua madre stava risalendo la strada di corsa. Indossava ancora gli occhiali scuri. Respirava a fatica.

Luigi, ti ho detto che devi stare in casa! – disse la donna prendendo il bambino per mano e strattonandolo. Lui continuava a piangere.

Ma cosa gli è successo? – chiese Vittorio. Ora che la vedeva da vicino, si accorse del livido scuro che le scendeva sotto l’occhio sinistro. Gli occhiali non erano sufficienti a coprirlo.

Domandò ancora: – è caduta anche lei?

– Non sono fatti suoi – rispose la donna con un gesto di stizza.

Gli voltò le spalle e tornò verso casa, trascinandosi dietro il bambino in lacrime, che di tanto in tanto si voltava verso di lui, e veniva strattonato dalla madre che gli urlava di farla finita.

Nei due giorni successivi, Luigi non si fece vedere. Era evidente che non era caduto, né lui né la madre. Il fatto che fossero stati picchiati da quel padre che non aveva mai visto, gli parve evidente.

La mattina seguente decise di andare al cantiere presto.

Aveva saputo dal bambino che il padre usciva di casa prima delle sette. Voleva vederlo in faccia.

L’uomo doveva avere la sua stessa età, anno più anno meno. Aveva una folta capigliatura bionda. Era in sovrappeso, ma ben piazzato.

Vittorio aveva lasciato il furgone sulla strada. Vedendolo arrivare, si era spostato sul retro a scaricare l’attrezzatura. Quando gli passò accanto, lo intercettò:

Buongiorno, tu devi essere il padre di Luigi – disse in tono allegro.

L’uomo l’osservò. L’espressione del viso era dura. Gli occhi scuri erano incorniciati dalle rughe di espressione:

E te chi sei? –

Sono il muratore che sta facendo i lavori qui – rispose Vittorio indicando la casa – Luigi viene a farmi da direttore dei lavori. –

Luigi deve stare in casa – disse l’uomo.

L’avete portato all’ospedale? Ho visto che ha preso una bella botta.

L’uomo gli si fece vicino. Aveva l’alito pesante.

Fossi in te, mi farei i cazzi miei – sibilò puntandogli l’indice a pochi centimetri dalla faccia. – Se ti vedo a parlare con mio figlio, ti faccio pentire di essere venuto al mondo. E non scherzo. Non mi piacciono i ficcanaso. –

Vittorio rimase a osservarlo mentre si allontanava. Era scosso. Non dalla minaccia, ma da quell’uomo. Gli sembrava impossibile potessero esistere persone così. Sentiva spesso ai notiziari di donne percosse e uccise da mariti o conviventi, ma non ne aveva mai conosciuto uno. Si era chiesto spesso come mai fosse così difficile fermarli.

Quella mattina non riuscì a concentrarsi.

All’ora di pranzo andò a suonare al campanello del piccolo amico. Aprì la madre:

Cosa vuole? – chiese dalla porta di casa. Non indossava gli occhiali da sole. Il livido si stava assorbendo, ma era ancora evidente.

Voglio sapere come sta Luigi. –

Sta bene. E’ in camera sua. Non può uscire. –

Vittorio rimase in silenzio, indeciso sul da farsi. Vide muoversi una tenda al piano superiore. La madre, vedendo il suo sguardo alzarsi, urlò rivolta all’interno della casa:

Luigiiiii! Togliti dalla finestra. Falla finita! Lo sai poi cosa succede. – Rivolta a Vittorio: – devo andare, grazie di essere passato.

Cosa succede? – chiese lui secco.

La donna l’osservò. Nel suo sguardo c’era dolore, sconcerto, paura.

La prego, non sono fatti suoi. Ci lasci stare. La prego. –

Fece un passo indietro e chiuse la porta.

Quella notte e le due seguenti, Vittorio non chiuse occhio.

Aveva valutato la possibilità di parlarne con un amico carabiniere. Forse loro potevano intervenire, ma gli sembrava improbabile.

I casi di cronaca parlavano chiaro: donne uccise malgrado denunce e diffide.

Avvertiva un vero e proprio dolore fisico. L’idea di voltarsi dall’altra parte, lo faceva stare male.

Continuava a vedere il volto sorridente e gli occhi luminosi di Luigi che gridava: – Grandeeeeee! –

La mattina si svegliò presto. La moglie e la figlia dormivano. Fece colazione e si diresse al cantiere. Erano da poco passate le sei. Non aveva idea di cosa fare. E neppure se avrebbe fatto qualcosa.

Nel frattempo, i lavori erano a buon punto. Aveva demolito la vecchia struttura in sasso e fatto lo scavo. Il muro era armato e in giornata sarebbe arrivata l’autobotte per la gettata. Contava di finire entro la settimana.

Stava con gli occhi chiusi, appoggiato alla sponda del camion, quando udì chiudersi il cancelletto della casa di Luigi. Suo padre stava arrivando. Parcheggiava l’auto pochi metri più avanti, lungo la strada. Vittorio si spostò verso di lui. L’uomo si fermò a guardarlo:

Allora, hai finito? – chiese indicando il muro con un cenno della testa.

Quasi – rispose lui.

Buon lavoro, allora – disse l’altro voltandosi.

Una domanda – disse Vittorio facendolo girare di nuovo – come fa un uomo a picchiare una donna? Come si può fare del male a un bambino di quattro anni, al proprio figlio? E’ una cosa che ti fa sentire uomo?

L’altro rimase un attimo interdetto, quasi non fosse certo di avere capito bene.

Alzò il braccio per colpirlo.

La mano di Vittorio scattò autonoma.

Stringeva una piccozza da muratore. Il movimento fu fluido, quasi elegante. La punta penetrò con estrema facilità nella guancia sinistra dell’uomo, continuando la corsa indisturbata, portando con sé denti e ossa.

L’uomo non urlò, o almeno Vittorio non lo udì. La piccozza fu estratta e colpì altre tre volte, in rapida successione. Se avesse dovuto descrivere la sensazione che aveva provato, avrebbe detto che gli sembrava di essere al cinema. Doveva avere sbagliato sala perché stavano proiettando un film dell’orrore, e lui non li amava. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì, il padre di Luigi era ai suoi piedi. Il cranio era spaccato in due punti. Il biancore delle ossa spiccava fra i capelli intrisi di sangue. Un liquido che sembrava gelatina fuoriusciva dai fori. Gli occhi erano sbarrati. A Vittorio parve di riconoscere un’espressione di stupore, ma forse la vide solo lui.

Rimase dieci minuti in attesa che qualcosa accadesse. Era certo che qualcuno avesse visto. Gli parve di udire le sirene della polizia, ma erano solo nella sua mente. Erano da poco passate le sette di mattina, e in quella torrida giornata di fine luglio l’unico suono era il frinire delle cicale.

Si scosse. Non aveva programmato nulla, neppure l’omicidio, ma aveva una moglie e una figlia. Non voleva andare in prigione, ancora meno per avere ucciso un essere del quale nessuno avrebbe sentito la mancanza.

L’uomo era pesante.

Non senza difficoltà lo trascinò accanto al muro in costruzione.

Smontò un paio di pannelli gialli da getto e lo fece rotolare dentro. Dovette piegare alcuni tondini di ferro per riuscire a rimettere al loro posto i pannelli. Tornò verso il retro del furgone, dove aveva colpito l’uomo, con cazzuola e secchi. Tolse la terra dove c’era il sangue e la vuotò all’interno della struttura da gettare. Per non correre rischi, prese la pala e scavò a fondo per essere certo di eliminare qualsiasi traccia di sangue. Verificò più volte il percorso che aveva fatto fino al muro, e solo quando fu certo di avere ripulito tutto, si tolse pantaloni e maglietta e li infilò all’interno della struttura in ferro. Aveva sempre un ricambio con sé.

L’autobotte doveva arrivare alle nove. Se non accadeva nulla nel frattempo, era salvo. L’unico problema era l’auto dell’uomo, parcheggiata pochi metri più avanti. Contava sul fatto che la moglie non sarebbe uscita prima dell’arrivo dell’autobotte.

Gli venne in mente che l’uomo, con tutta probabilità, aveva il cellulare in tasca. Sapeva che poteva essere localizzato. Era troppo tardi e troppo rischioso andare a prenderlo. Contava sul fatto che le ricerche sarebbero scattate dopo l’arrivo dell’autobotte. Non era un mago della tecnologia, ma presumeva che il telefono non avrebbe continuato a mandare il segnale sotto qualche metro cubo di cemento.

L’autobotte arrivò puntuale e, mano a mano che la pompa sversava cemento nelle casseforme, lui sentì la tensione sciogliersi.

Vittorio terminò i lavori la settimana successiva. Seppe della scomparsa dell’uomo dal notiziario locale. Con sua sorpresa, nessuno venne a fargli domande. Non vide più Luigi, ma lo sognò la notte dell’omicidio. Stava in sella alla sua bicicletta e gridava: – Grandeeeeee! –