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Il gioco, al tempo della mia infanzia, era fuori casa.

C’erano le scorribande in bicicletta, le partite a pallone e i salti sui blocchi nella vicina segheria.

C’erano le ginocchia sbucciate e il pianto nascosto dalla gonnella di mamma.

C’era il riso e l’abbraccio degli amici, il complimento di chi aveva qualche anno di più  e ti gonfiava il cuore.

Questa è stata l’alba della mia vita.

I vicini di casa erano un’estensione della famiglia.

Si passava di casa in casa: nessuna inferriata, nessuna porta chiusa. I mostri c’erano anche allora, ma non così tanti e non così vicini.

Marco e Tobia, fratelli, erano miei vicini di casa. Tobia aveva tre anni più di me, Marco sei.

La madre, Margaret, era tedesca.

Siamo cresciuti insieme.

L’adolescenza, come è normale che sia, ci ha poi diviso.

Il bene è rimasto.

Tobia era la testa matta del gruppo: biondo, occhi chiari e denti a topo.

Aveva studiato da geometra, ma la sua indole era a mille chilometri di distanza. Era un bel ragazzo, uno sportivo.

Fu uno dei primi a cimentarsi con il surf.

Aveva preso a girare il mondo. Lavorava nei villaggi turistici insegnando la difficile tecnica di stare in equilibrio sulla tavola.

Quando gli ardori della gioventù erano passati, aveva fatto ritorno a casa.

Ci siamo, se così si può dire, rincontrati.

Si era cimentato nella scultura. Estroso come lo era sempre stato, si era inventato un commercio tutto suo: creava meridiane in marmo, di varie fogge e colori.

Io commerciavo in marmo, e quando lui aveva bisogno, gli fornivo il materiale.

Era sempre lo stesso: biondo e luminoso, dal riso facile, entusiasta della vita.

Un giorno, più di dieci anni orsono, ricevetti una sua mail. Voleva comunicarmi, prima che lo sapessi da altri, che gli era stato diagnosticato un tumore alla testa e che presto avrebbe subito un intervento chirurgico.

Lo chiamai:

Tobia, sei un cretino! Ma ti sembra uno scherzo da fare? –

Neppure per un attimo ho pensato potesse essere la verità. Ero abituato ai suoi scherzi, alle battute, alle scioccanti affermazioni serie che si concludevano con una chiassosa risata di scherno.

Non è uno scherzo, Claudio. –

Sì, va bene. Dai, falla finita, non mi piace scherzare su queste cose. –

– Non è uno scherzo, Claudio. –

Il mondo mi cadde addosso. Avverto ancora oggi la sensazione di scoramento che mi afferrò il cuore fino a farlo sanguinare.

Ricordo la sensazione di imbarazzo e impotenza. Non era uno scherzo.

Mi raccontò di come se ne era accorto, per caso. Era un giocatore di tennis. Aveva preso a mancare palle facili, a inciampare sugli scalini mentre saliva in casa: cose stupide.

Il medico di famiglia gli aveva diagnosticato problemi reumatici. Ma aveva solo 38 anni.

Marco, il fratello, gli consigliò di parlare con una loro amica, dottoressa all’ospedale di Pisa.

Nessuno aveva preso la cosa sul serio: “ormai sei vecchio, meglio che lasci stare il tennis, non vedi più arrivare la palla”; “nella peggiore delle ipotesi facciamo montare un ascensore, o ti prendiamo in braccio.”

Il responso della TAC era stato tranciante: tumore alla testa.

L’operazione, così mi disse, era riuscita. Il tumore era stato asportato. La prognosi, però, era a termine: tre anni. Se riusciva a passare indenne quel periodo, ce l’avrebbe fatta.

Un giorno ci incontrammo dietro casa dei miei genitori. Erano trascorsi pochi mesi dall’operazione. Era in perfetta forma: luminoso e sorridente come mai lo avevo visto. La sua voce era forte, così come la carica di energia che trasmetteva.

Dopo qualche mese iniziò la discesa, progressiva e inarrestabile. Perse l’uso di una gamba, poi di un braccio e così via. Pezzo dopo pezzo il suo corpo lo stava lasciando.

Negli ultimi mesi di vita non l’ho più rivisto. Abitava a pochi metri dai miei genitori, ma non me la sono sentita di vederlo spegnersi. Credo che anche per lui sarebbe stata una pena.

Entrambi associavamo, l’uno all’altro, il tempo della nostra infanzia, il tempo del non pensare e del gioire, il tempo che non conosce la morte, il tempo delle albe senza tramonti.

Seppi da mia madre che, negli ultimi giorni, decise di sospendere le cure. La voglia di combattere era esaurita. La morte venne a prenderlo un giorno di dicembre del 2011.

Lo rividi, per l’ultima volta, in casa sua, sul letto. Era sempre stato un matto anticonformista, anarchico e figlio di fiori: lo fu anche nella morte.

Vestiva jeans e maglietta. Le scarpe a tennis che indossava mi sembra di vederle ora qui, davanti a me, sul tavolo, mentre scrivo e una lacrima mi scende, così, giusto per ricordarmi che lui è sempre qui con me.

Chiese di essere cremato e che le sue ceneri fossero sparse in mare, fuori da Punta Bianca.

Il suo mare, dove lo immagino a cavalcare la tavola da surf, gli occhi azzurri rivolti all’orizzonte e io qui, su uno scoglio, a cercare di afferrare sogni e ricordi di un mondo che non c’è più.

Ti saluto, amico mio, tenendo in mano la foto scattata una vita fa. Sento un groppo alla gola e voglio pensarti qui accanto a me, che ridi e mi batti la mano sulla spalla.

E’ uno scherzo, Claudio! Dai, falla finita! –

Claudio Colombi. Autore del libro La Bibbia di Kolbrin“.

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